Che la privacy sia un diritto fondamentale è diventato ormai uno slogan che siamo abituati a sentire risuonare come un mantra, ma anche se l’art.8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea afferma che “ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano”, la realtà della società digitale attuale è purtroppo ben diversa.
Considerando che la riduzione delle disuguaglianze è uno dei principali obiettivi del programma d’azione per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritto dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU nel settembre del 2015, e visto che ormai siamo quindi a metà del cammino verso la deadline fissata per la realizzazione dell’Agenda 2030, almeno per quanto riguarda la dimensione digitale non possiamo far altro che constatare che al presente ci troviamo in una preoccupante fase di stallo, che per certi versi pare ricordare la “selva oscura, che la diritta via era smarrita” del celeberrimo incipit di Dante Alighieri nel primo canto dell’Inferno.
Tra le vittime che lo spietato modello di business dei colossi tecnologici sta mietendo in questi anni vi sono bambini e adolescenti, soggetti particolarmente vulnerabili che non sono certo in grado di comprendere la portata del vile sfruttamento che viene fatto dei loro dati personali, e che sono fin troppo facili da ingannare attraverso quei subdoli trabocchetti etichettati come “Dark Pattern” (modelli oscuri) che incontrano mentre navigano nel web e che sono fatti ad arte per carpire le informazioni che li riguardano, spesso all’insaputa di genitori ai quali spetterebbe di decidere se dare o meno il consenso per consentire al minore di fruire di social o videogiochi online. E, come nel recente caso di Fortnite, se le società dell’entertainment sono disposte a pagare sanzioni da centinaia di milioni di dollari senza battere ciglio, ciò fa ritenere che i loro profitti siano ben superiori rispetto a quanto devono sborsare alle autorità quando vengono colte in flagrante mentre violano le leggi sulla privacy.
Anche se si spendono fior di dibattiti sui temi dell’inclusione, tra i dimenticati dalla privacy (e quindi con il rischio di rimanere sempre più esclusi dal mondo digitale) vi sono inoltre tutte quelle categorie di cittadini che devono fare i conti con una qualche forma di disagio, come ad esempio possono essere un rifugiato di guerra, una persona con un basso livello di istruzione, o un ipovedente:
nonostante il considerando 59 del GDPR incoraggi gli operatori di Internet a prevedere modalità volte ad agevolare l’esercizio dei diritti degli interessati in materia di protezione dei dati personali, una ricerca condotta da Federprivacy su 400 siti web di lingua italiana di vari settori di organizzazioni pubbliche e private ha evidenziato che il 98,7% di essi non mette affatto in condizione tali utenti svantaggiati di poter consultare l’informativa privacy per conoscere quali sono i loro diritti e come poterli esercitare. In parole povere, la privacy può dunque attendere se non sei un laureato di madrelingua italiana e con 10 decimi di vista.
Tra coloro che vedono la privacy sempre più come un miraggio, vi sono ovviamente anche i lavoratori, che specialmente in questi ultimi anni hanno vissuto la progressiva imposizione di strumenti sempre più invasivi per la loro sfera privata come ad esempio rilevatori di impronte digitali, sistemi di geolocalizzazione, software di monitoraggio delle attività, body scanner, senza pensare allo spettro delle decisioni automatizzate dell’Intelligenza Artificiale, che sicuramente offre molte opportunità per lo sviluppo tecnologico, ma desta però anche non poche preoccupazioni, ponendo numerose complicazioni normative e sfide per riuscire a garantire ai lavoratori l’accessibilità ai loro diritti.
Come ha recentemente osservato Francesco Pizzetti, Presidente emerito del Garante per la protezione dei dati personali, che ha guidato l’Autorità dal 2005 al 2012, «non è possibile pensare a una vera e solida espansione della realtà digitale se l’accesso ad essa continuerà ad essere di fatto inibito a un numero inevitabilmente crescente di cittadini che sempre meno potranno essere considerati come “discriminati” e sempre più dovranno piuttosto essere considerati “esclusi” dal mondo digitale».
È inutile quindi continuare a nascondersi dietro a un dito: il futuro dello sviluppo tecnologico è in bilico, e potrà essere sostenibile solo se si sarà tenuto conto in modo veramente inclusivo anche del rispetto del diritto alla protezione dei dati personali degli individui, senza lasciare indietro nessuno.
Per questo, ora è più urgente che mai che tutti i protagonisti della transizione digitale non si limitino a lanciare degli slogan accattivanti, ma mettano davvero al centro del dibattito il rispetto del diritto alla protezione dei dati personali.
di Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy – @Nicola_Bernardi