Quando i social diventano moltiplicatori di odio: cosa dice la Cassazione

I social network sono ormai una parte imprescindibile della nostra quotidianità. Ci tengono informati, ci intrattengono e ci connettono con amici e sconosciuti in ogni angolo del mondo. Ma questa stessa potenza comunicativa può trasformarsi in un’arma per diffondere odio, razzismo e negazionismo.

Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione si è trovata a dover affrontare diversi casi emblematici in cui il linguaggio d’odio è stato amplificato dai social, applicando l’articolo 604-bis del Codice Penale, che punisce la propaganda e l’istigazione alla discriminazione razziale. Da queste pronunce emerge un concetto chiaro: le parole online viaggiano più veloci e più lontano, e questo aumenta la responsabilità di chi le diffonde.

In un caso recente (Casssazione sentenza n. 38806/2025), la Suprema Corte ha stabilito che chi pubblica contenuti negazionisti sull’Olocausto – come la negazione delle camere a gas o del diario di Anna Frank – non può invocare la particolare tenuità del fatto. Il motivo è semplice: la viralità dei social trasforma ogni post in un potenziale veicolo di danno, capace di raggiungere un numero enorme di persone in pochissimo tempo. Anche un singolo contenuto, apparentemente “innocuo”, diventa così pericoloso.

Un altro episodio (Cassazione sentenza 11976/2025) riguarda i forum online creati per diffondere l’ideologia della supremazia della “razza bianca”. La Cassazione ha chiarito che scrivere messaggi razzisti in spazi progettati per alimentare l’odio non rientra nella libertà di espressione: il contesto conta, e pubblicare in comunità che hanno come scopo la propaganda razziale equivale a contribuire attivamente a un reato.

Non tutte le forme di comunicazione digitale, però, rientrano nella propaganda penalmente rilevante. In un caso del 2024 (Cass., Sez. 1, 25 ottobre 2024, n. 39243), inviare link negazionisti in forma privata tramite WhatsApp non è stato considerato reato, perché mancava la diffusione verso un pubblico indeterminato.

La morale giuridica è chiara: il diritto penale interviene quando esiste un concreto rischio di diffusione di idee pericolose.

Ma anche azioni apparentemente minime possono avere conseguenze rilevanti. Nel 2022 (Cassazione n. 4534/2022), la Corte ha stabilito che partecipare a comunità virtuali neonaziste mettendo “like”, condividendo post o commentando, può costituire reato. Gli algoritmi dei social amplificano la visibilità dei contenuti: un semplice gesto può contribuire alla circolazione di messaggi razzisti o antisemiti tra migliaia di persone.

Dalle pronunce emerge un filo conduttore evidente: la responsabilità cresce insieme al potere di diffusione dello strumento utilizzato. La stessa frase detta in privato o pubblicata sui social non ha lo stesso impatto né la stessa pericolosità. La Cassazione non punisce le idee in sé, ma il loro potenziale di diventare virali e di alimentare odio e discriminazione.

Il quadro che ne deriva invita a una riflessione importante: usare i social comporta responsabilità. Le regole principali che emergono dalle sentenze possono essere riassunte così:

  • pubblicare contenuti razzisti non può essere considerato un innocente divertimento, ma costituisce reato;
  • diffondere tali messaggi in gruppi o community che propagano odio aggravano ulteriormente la responsabilità;
  • condividere, commentare o mettere “like” non è un semplice gesto da prendere sottogamba, perchè può contribuire alla propaganda;
  • inviare messaggi privati non comporta ricadute di carattere penale, ma resta un comportamento eticamente discutibile.

Ovviamente il diritto non può fermare completamente l’odio, ma può limitarne la diffusione. E anche l’etica non la si  può costruire solo a parole, ma deve far parte di un percorso di educazione civica e digitale che dovrebbe far parte dell’istruzione scolastica obbligatoria per invertire una tendenza che ormai non riguarda solo gli adulti, ma ha attechito anche nelle nuove generazioni, generando un problema sociale di portata planetaria.

Oggi, più che mai, il confine passa attraverso la nostra consapevolezza nell’uso dei social: ogni post, ogni gesto, ogni “mi piace” può contribuire a costruire o a distruggere il clima sociale.

Nicola Bernardi, Presidente di Federprivacy