Secondo l’ultimo rapporto rilasciato da OpSec sul barometro delle abitudini di consumo che ha coinvolto 2.600 utenti nel mondo, nel 2020 il 64% dei clienti che hanno subìto una violazione dei propri dati personali affermano di aver perso la fiducia nel brand da cui avevano comprato, e nel 28% dei casi non vogliono più fare acquisti da quell’azienda, mentre il 55% dei consumatori intervistati sono convinti che le società di e-commerce non stanno facendo abbastanza per proteggere i dati personali dei clienti.
Secondo l’osservatorio di Federprivacy, una delle principali cause della crescente diffidenza nei confronti del mercato digitale è la scarsa trasparenza di siti web ed app, che spesso ricorrono a vari espedienti e ai cosiddetti “dark pattern” per indurre gli utenti a rinunciare alla loro privacy.
Tra i fenomeni più diffusi che pesano sul calo della fiducia su internet, vi è l’eccessiva lunghezza delle informative sulla privacy spesso scritte con gerghi ambigui che gli utenti non riescono a comprendere bene e neanche a leggere per intero, come ad esempio quelle di Google e Facebook, entrambe lunghe circa 7.000 parole con un tempo di lettura di più di mezzora, e quella di Zoom lunga 10.000 parole, che può richiedere ben 45 minuti.
Ad alimentare lo scettiscismo sul web sono anche gli slogan ingannevoli dei banner sui cookie di siti ed app che richiedono un consenso per la privacy che in realtà si rivela uno strattagemma per ottenere l’autorizzazione a monitorare i comportamenti online dell’utente per profilarlo e proporgli pubblicità basata sulle sue preferenze ed abitudini di consumo.
Proliferano anche popup che non danno scampo all’utente, come quello recentemente usato da Twitter che propone come due uniche opzioni quella di “attivare gli annunci personalizzati” o quella di ricevere “annunci meno pertinenti”, senza poter rifiutare del tutto la pubblicità mirata. Se poi si va a frugare nel proprio profilo del social del cinguettio, si potrà constatare che nelle impostazioni su privacy e sicurezza la casella degli annunci personalizzati risulta probabilmente già preselezionata su un consenso che non si ricorda di aver mai dato.
Inoltre, nonostante quello alla cancellazione sia un diritto che dovrebbe essere agevolato da parte del titolare ai sensi dell’art. 12 del Gdpr, l’utente che lo vuole esercitare si imbatte in un vero e proprio labirinto, come nel caso di Amazon, dove per cancellare il proprio account l’utente deve attraversare ben 12 capziosi passaggi tra varie funzioni e menù a tendina disorientanti che non sembrerebbero avere nulla a che fare con la cancellazione dei propri dati come “Prime e altro”, “Dicci di più sul tuo problema”, “altri aggiornamenti sull’account”, etc.
Con l’introduzione del Gdpr sono stati fatti notevoli passi avanti per regolamentare la trasparenza online, e per recuperare la fiducia degli utenti ed evitare pericolosi effetti boomerang alcuni colossi tecnologici hanno ripensato le loro strategie facendo un’inversione di marcia, come ha dimostrato di voler fare Apple con uno spot che in poco tempo ha realizzato 100 milioni di visualizzazioni solo su YouTube, nel quale la privacy presentata come valore etico è diventata il nuovo cavallo di battaglia.
Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy – @Nicola_Bernardi